* Introduzione | La cena | I cibi | Il Garum | Ricette |
Suppellettili recuperate nella Casa di Caius Julius a Pompei.
Con queste pagine farete un primo passo nel mondo ormai dimenticato della cucina ai tempi dell' antica Roma, conoscerete cosa mangiavano i nostri antenati, i riti della cena, e alcune ricette tramandateci dallo chef dell'epoca Marco Gavio Apicio.
La tradizione colloca noi Italiani, fra i popoli di questo pianeta che più amano la cultura della buona cucina; ciò è confermato dal fatto che molti dei piatti classici del nostro paese hanno fatto il giro del mondo, conquistandosi una buona fetta della cucina internazionale. Il nostro paese, come ogni altra nazione ha un suo proprio tipo di alimentazione, e di conseguenza il nostro palato è portato a recepire con preferenza determinati sapori rispetto ad altri. Non ci deve stupire, sapere che presso alcuni popoli la carne dei serpenti è considerata un cibo prelibato, che mentre noi condiamo prevalentemente con olio di oliva, nei paesi del nord Europa il principale condimento è il grasso animale e che alcuni popoli si nutrono di insetti come ragni e cavallette. Si deve puntualizzare che in un individuo, il gusto del buono e del cattivo non è una caratteristica innata ma è sviluppato attraverso una serie di fattori che potremmo così suddividere: fattori ambientali, come l'abbondanza di determinati prodotti rispetto ad altri; fattori culturali, quali il passaggio tra le varie generazioni di ricette tradizionali; e fattori di tipo religioso, come ad esempio il divieto di mangiare carne di suino presso i popoli islamici. Quanto sinora detto vale non solo da popolo a popolo ma anche da un tempo all'altro; gia agli inizi del nostro secolo l'alimentazione dei nostri nonni non era la stessa dei giorni d'oggi, sia per la mancanza di alcuni alimenti successivamente importati nel nostro paese sia per la recente creazione di alcuni piatti che corrispondono ad una sempre più crescente richiesta di sapori internazionali.
Prendendo in esame questa diversità di alimentazione attraverso il tempo, immaginiamoci quindi di fare un bel salto indietro nel tempo e di ritrovarci nello stesso luogo da dove siamo partiti, ospiti di un banchetto all'interno di una domus romana. Quali saranno i piatti che ci saranno serviti? Avranno sapori ed aromi a cui siamo abituati oppure resteremo inorriditi soltanto alla loro vista? Sicuramente dipenderà dal tipo di occasione per cui saremo invitati a partecipare alla mensa del nostro ospite; in effetti, pensando all'epoca romana si è portati a pensare erroneamente, che i Romani fossero dediti a continue orge e a monumentali banchetti come vengono descritti quelli di Nerone e di Trimalcione.
In primo luogo occorre puntualizzare che gran parte della popolazione non avendo a disposizione tutte le comodità di cui disponevano le famiglie dei ricchi, per mangiare doveva arrangiarsi e molto spesso i pasti venivano consumati per strada; molto diffuse erano le taverne (caupona) e i venditori ambulanti, i quali vendevano un po di tutto e per lo più olive, pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, uccelli allo spiedo, polpi in umido, frutta, dolci e formaggio. Di solito il pasto medio di un povero era composto da un pezzo di pane e da piccoli pesci in salamoia accompagnati da un bicchiere d'acqua o di vino tra i più scadenti. I momenti della giornata dediti al soddisfacimento dei bisogni della gola erano in linea di massima tre: il Jentaculum o prima colazione; il prandium, o pranzo di mezza giornata e la cena, ovvero il pranzo di fine giornata.. Il Jentaculum e il prandium di solito erano ridotti a un misero spuntino consumato in fretta e furia durante le varie attività che caratterizzavano la giornata lavorativa e la loro importanza era talmente minima che frequentemente uno dei due veniva addirittura saltato. Il pasto più importante della giornata era la cena; era in questa occasione che l'uomo romano poteva assaporare i vari piatti più o meno elaborati, comodamente disteso sul triclinae e conversare con i suoi convitati. Alla cena ci si recava di solito dopo aver fatto il bagno alle terme, dove, tra l'altro si aveva l'occasione di incontrare i propri conoscenti e invitarli alla propria mensa, infatti le terme erano anche il ritrovo di molti sfaccendati che vi si recavano con la speranza di ricevere un invito da qualche amico.
Schema di disposizione di un triclinium
Plinio e Marziale ci descrivono l'inizio della cena dopo l'ora ottava in inverno (circa le ore due del pomeriggio) e dopo l'ora nona in estate e aveva fine (a seconda delle proporzioni della cena) prima che fosse notte fonda. Il pasto era consumato in un luogo ben preciso della casa, chiamato triclinium, nome dovuto alla presenza in questa stanza di alcuni letti a tre posti (triclinia, dal greco Klinai, letto) sui quali si stendevano i convitati. I triclinia erano delle superfici in legno o in muratura , leggermente inclinate verso la parte esterna della mensa, sulle quali venivano distesi materassi, coperte e cuscini. I convitati vi prendevano posto, tre per ogni letto, distesi su un fianco, uno accanto all'altro in modo da avere di fronte il tavolo; stavano appoggiati sul gomito sinistro e con il braccio destro portavano i cibi alla bocca. Il primo letto da sinistra verso destra era chiamato summus, il secondo, cioè quello centrale e d'onore era chiamato medium e l'ultimo , quello di destra era l'imus, il posto dove di solito era disteso il padrone di casa ; stessi nomi erano dati ai tre posti che componevano il letto: locus summus, locus medium e locus imus, fatta eccezione per il posto dell'ospite d'onore, chiamato locus consularis. Appena lo schiavo che annunciava gli invitati (nomenclator) aveva sistemato comodamente i partecipanti alla cena, i servitori (ministratores) iniziavano a portare i piatti, che potevano essere piani (patina o patella) o fondi (catinus), i bicchieri senza manico o poculum o le coppe e altri strumenti come coltelli, stuzzicadenti ecc. I convitati alle cenae mangiavano con le mani e non utilizzavano le posate; soltanto in caso di pietanze liquide o cremose, erano muniti di cucchiai di varie forme fra i quali i più utilizzati erano la ligula, o cucchiaio classico e la trulla , o mestolo. Proprio in conseguenza del maggiore utilizzo delle mani, alla fine di ogni portata i servi provvedevano al loro lavaggio prima di passare al piatto successivo. Molti convitati usavano portare da casa alcuni tovaglioli che oltre a essere usati come tovaglia, servivano per portare a casa gli avanzi del pasto o i doni (apophoreta) a volte distribuiti dal padrone di casa.La cena iniziava con gli antipasti o gustatio, i quali erano formati da cibi leggeri come le olive, le immancabili uova, porri, funghi, ostriche e varie verdure, accompagnate da vino con miele (mulsum); proseguiva con la cena vera e propria, composta di varie portate, chiamate ferculum. Dopo le libagioni in onore dei Lari la fase conclusiva della cena era formata da dessert (secundae mensae) e dal rito tradizionale della commissatio, diffusa più frequentemente nei grandi banchetti, che consisteva in una grande bevuta generale di vino sottoposta a regole ferree, durante la quale si assisteva anche a piccoli spettacoli, concerti o letture.
Triclinium
(Pompei)
Dopo aver descritto sommariamente i tre momenti che caratterizzavano i pasti durante la giornata dell'uomo romano, occupiamoci più in particolare dei cibi e di come venivano preparati.
La cucina degli antichi romani era assai semplice e con pasti molto frugali. Il nutrimento essenziale era rappresentato dalla polenta di frumento (puls o pulmentus), da legumi (fave, ceci, lenticchie), da farro e da ortaggi. Nella preparazione della polenta, veniva utilizzato principalmente il farro (far) che era in linea di massima il cereale più coltivato in quel periodo; più tardi vennero utilizzati anche miglio, panico, orzo, la farina di fave o di ceci. In ogni caso il prodotto più utilizzato restava il farro che poteva essere cotto sia in grani interi, sia macinato o frantumato nel mortaio e ridotto in polvere assumendo l'aspetto di ciò che noi chiamiamo farina (da far, farro). La polenta era preparata in un contenitore di terracotta detto pultarium dove al farro trattato si aggiungeva acqua, sale e un po di latte e a seconda dei gusti veniva arricchito con fave (puls fabata), cavoli, cipolle, formaggio (puls caseata) ed anche con alcuni pezzi di carne o di pesce; tutto ciò per darle un sapore più ricco, fino ad arrivare ad un vero e proprio miscuglio che conteneva un'infinità di ingredienti chiamato satura o satira ( da cui l'utilizzo moderno di queste due parole: saturazione e satira nel senso di battute o scherzi pesanti), che portava in breve tempo alla sazietà di chi lo mangiava. Con l'arrivo del pane sulle tavole, la polenta, che era stata l'alimento base per molto tempo, vide diminuire la sua importanza. Vi erano tre tipi di pane: il pane nero o pane dei poveri (panis plebeius o rusticus), il pane bianco anche se poco migliore del primo (panis secundarius) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi (panis candidus o mundus); il grano con cui era fatto arrivò ad avere un'importanza primaria, e i Romani arrivarono perfino alla promulgazione di leggi che regolavano la corretta distribuzione di questo prodotto ( cura annonae, lex Clodia, lex Sempronia frumentaria); furono organizzati speciali servizi di approvvigionamento, facendo arrivare il grano via mare da zone lontane, depositandolo in magazzini speciali per la successiva distribuzione alla popolazione sotto forma di grano in chicchi oppure come avvenne in un secondo momento, direttamente in pani già cotti.
Il pesce era un cibo molto diffuso, sia di fiume che di mare, sia quello allevato in grandi vivai (vivaria). I pesci utilizzati nella cucina romana erano di circa 150 specie, si andava da quelli delle tavole dei ricchi (orate, triglie, sogliole, dentici, trote ecc.) a quelli delle tavole dei poveri, più piccoli, di basso prezzo, di solito conservati in salamoia (menae, gerres ecc.). Molto richiesti erano anche aragoste, polpi, datteri, gamberi e ostriche. Le ostriche (ostrea) che Plinio definiva il "vanto delle mense opulente" erano molto ricercate infatti molti ricchi avevano allevamenti personali, in modo che questo prezioso alimento non mancasse mai alla loro mensa; per questo frutti di mare era stato fabbricato uno speciale cucchiaio a punta (cochler) con cui si aprivano e si vuotavano.
Anche se nella mensa romana erano più frequenti piatti a base di pesce, anche la carne aveva una sua importanza. Le carni più utilizzate erano quelle di bue e di maiale, ma non era raro trovare anche carne di cervo, di asino selvatico (onager), di cinghiale e di ghiro; di quest'ultimo, molto ricercato nelle tavole dei ricchi, esistevano anche alcuni allevamenti (gliraria) e veniva servito di solito disossato e farcito.
Molto utilizzata anche la carne di uccelli. Oltre alle specie classiche ancora da noi utilizzate (tordi, piccioni ecc.), venivano cucinati anche alcuni trampolieri in gran parte importati dalle varie regioni dell'impero, come i fenicotteri (se ne gustava in modo particolare la lingua), le cicogne e le grù. Piatto molto ricercato era quello a base di carne di pavone e di fagiano. In quanto al pollo, di cui oggi facciamo molto uso, era considerato carne poco pregiata e la si trovava per lo più nell'alimentazione dei poveri.
La carne veniva cucinata in moltissimi modi: arrosto, in umido e ripiena, con salse di vario genere. Le uova , di cui si preferiva la chiara al tuorlo, erano come si è detto molto apprezzate come antipasto o consumate rapidamente durante la giornata (Jentaculum e prandium). Dal latte si ricavavano formaggi freschi e secchi e dolci con aggiunta di miele, farina e frutta; il burro era poco utilizzato in cucina in quanto era usato come medicinale o come unguento per il corpo. Nelle opulente mense dei ricchi, in occasione di grandi banchetti i piatti di carne o di pesce, venivano preparati nei modi più fantasiosi; era in queste occasioni che i cuochi sfoderavano la loro arte culinaria, servendo in tavola piatti a base di carne camuffati in modo che avessero l'aspetto di uno stupendo pesce alla griglia o sotto forma di vere e proprie sculture a tema mitologico. Molto famosi sono i piatti serviti nell'ormai epica cena di Trimalcione, descritta da Petronio nel "Satiricon" e rievocata alcuni secoli dopo da Macrobio. Qui vengono serviti alcuni piatti dall'aspetto esageratamente fantasioso che però rispecchia il modo a volte sfacciato di alcuni ricchi romani, di ostentare la loro magnificenza; fra questi pi atti viene servita una lepre con le ali in modo da raffigurare Pegaso, il cavallo alato di Bellerofonte, e una scrofa di cinghiale ripiena di tordi vivi con tanto di cinghialini, fatti di pasta, nell'atto di succhiare alle mammelle della madre.
|
L'arte del saper cucinare non consisteva solo nel saper mascherare l'aspetto di un cibo, ma anche il suo sapore (anche perchè i cuochi dell'epoca non disponendo dei moderni frigoriferi dovevano mascherare il sapore un po rancido di alcuni cibi non proprio freschi), questo veniva ottenuto con l'utilizzo di varie salse composte con ingredienti che avevano poco a che vedere con la pietanza principale del piatto; ad esempio l'aggiunta di salse di pesce o di frutta spiaccicata su ricette a base di carne. Fra queste la più importante era il garum (dal greco garon che era la specie di pesce utilizzata) o liquamen, una sorta di salsa ottenuta dalla macerazione sotto sale di interiora di pesce con olio, vino, aceto e pepe; lasciata a riposo per una notte in un recipiente di terracotta e messa all'aperto, al sole, per due o tre mesi, rimescolata ogni tanto in modo da farla fermentare; quando la parte liquida si era ridotta per effetto del sole, si inseriva un cestino, il liquido che filtrava era la parte migliore e cioè il garum, la restante parte, lo scarto, era l'allec, la salsa secondaria. Il garum, avrebbe sicuramente avuto, per i nostri gusti, un odore ed un sapore |
nauseabondo, anche se questo era già riconosciuto da personaggi dell'epoca, infatti Marziale, per descrivere un certo Papilo, un individuo repellente , in uno dei suoi "Epigrammi" dice: "Unguentum fuerat, quod onyx modo parua gerebat: olfecit postquam Papylus, ecce, garumst."(era un unguento profumato quello contenuto fino a poco fa in un vasetto di onice; dopo che l'ha annusato Papilo, ecco, è garum). Il garum era di solito un liquido chiaro dall'aspetto dorato, che si conservava bene in anfore e veniva utilizzato per aggiungere un gusto saporito alle pietanze; era presente in quasi tutti i piatti e se saputo d osare, faceva la fortuna di molti cuochi. L'industria del garum era molto sviluppata nel Mediterraneo, quello più pregiato veniva prodotto in Spagna e aveva un prezzo molto elevato, tanto da essere paragonato al più caro dei profumi nonostante il suo acre o dore; veniva importato via mare in anfore con tanto di marchio del produttore e di anno di produzione. Una grande produzione veniva effettuata anche nella nostra penisola, di prim'ordine era quello prodotto a Pompei (officina del garum degli Ombricii).
|
FRUTTA E VERDURE
Anfora da vino |
Per quanto riguarda le verdure, si consumavano: lenticchie, fave, ceci, piselli, lattughe, cavoli, carote, rape, cipolle, zucche, carciofi e asparagi (più rari), cetrioli, erbe lassative come malve e bietole, menta e funghi (boleti) i quali erano molto ricercati. Le olive erano sempre presenti sia sulle tavole dei ricchi che su quelle dei poveri. L'olio di oliva fu una delle maggiori componenti dell'alimentazione dei Romani, usato anche per la medicina e per l'illuminazione; se ne trovava di varie qualità: L'olio vergine di prima spremitura (oleum flos), l'olio di seconda qualità (oleum sequens) e l'olio comunemente usato (oleum cibarium). Il consumo medio di olio di un cittadino romano era di circa 2 litri in un mese; Roma faceva la parte del leone in quanto è stato verificato che il Monte Testaccio ( un'autentica montagna artificiale formata da frammenti di anfore) è composta essenzialmente da resti di anfore olearie, in gran parte provenienti dalla regione della Betica (Spagna meridionale) che era il più grande esportatore di olio dell'epoca. |
La frutta era costituita da mele (mala), pere (pira), ciliege (cerasa), susine (pruna), noci, mandorle (nux amygdala), castagne, uva (fresca e passa) e pesche. Dall'Armenia giungevano le albicocche che venivano utilizzate spesso spiaccicate, ricavandone una salsa che accompagnava molti piatti di carne. Dall'Africa arrivavano i datteri (dactyli). La frutta oltre che consumata fresca veniva utilizzata anche per ricavarne marmellate ed era un componente importante per la preparazione di dolci. Il vino aveva un'importanza particolare per i Romani in quanto era la bevanda più amata e concludeva tutte le cene. |
Veniva prodotta sia la qualità rossa (vinum atrum), sia la qualità bianca (vinum candidum), er commerciato in larga scala e addirittura si formarono anche alcune cooperative per la vendita di questa bevanda ( collegium); a Roma è stata verificata l'esistenza di un porto e di un mercato attrezzati essenzialmente per la vendita del vino ( portum vinarium e forum vinarium).Il Vino era raramente limpido e veniva di solito filtrato con un passino (colum), si beveva quasi sempre allungato con acqua calda o fredda (in inverno a volte anche con neve) in modo da ridurne la gradazione alcolica di solito da 15/16 a 5/6 gradi. I tipi più pregiati erano il Massico e il Falerno (dalla Campania), il Cecubo, il Volturno, l' Albano e il Sabino (dal Lazio) e il Setino; i più scadenti erano il Veietano (come tutti i vini dell'Etruria era considerato di qualità scadente), quello del Vaticano e quello di Marsiglia ( i vini della Gallia narbonese venivano affumicati e spesso contraffatti ); vi erano anche alcuni vini resinati, ma considerati di cattiva qualità in quanto la resina si aggiungeva ai vini più scadenti in modo che si conservassero più a lungo. Sulle anfore utilizzate per il trasporto era impressa in una targhetta (pittacium) l'origine e la data di produzione per tutelare l'acquirente, anche se già in quell'epoca esistevano casi di adulterazione; ad esempio in una ricetta di Apicio si insegna a trasformare il vino rosso in bianco. I vini aromatizzati sono indicati sotto il nome di Aromatites, di Mirris, uno dei più apprezzati. Si aveva infatti l'abitudine di fare un vino aromatico, preparato all'incirca come i profumi, prima con mirra poi canna, giunco, cannella, zafferano e palma. Il Gustaticium è un vino aperitivo che si beve a digiuno prima del pasto, era un vino al quale si aggiungeva miele. Infine erano ricchi di vini medicinali, si mescolava vino e miele e il prodotto era chiamato Mulsum. Il Passum era un vino fatto con uve secche ma che serviva per i malati. Certe famiglie pompeiane si erano specializzate nella viticoltura e facevano invecchiare nelle cantine le anfore di mulsum.I vini invecchiati (quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano di grande pregio sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro banchetti. Esistevano anche surrogati del vino come la lora, ricavata dall a fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la posca, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Il consumo del vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale per lo più nelle zone di produzione e nelle grandi città come Roma dove per le enormi esigenze dovute all'alta densità della popolazione portarono anche ad una distribuzione gratuita di questa bevanda (imperatore Aureliano, ultimi decenni del III sec. d.C.) e al conseguente afflusso di grandi quantità di vino sia italico che di importazione. I prezzi andavano dai 30 denari al sestiario (0,54 l) per i vini pregiati (falernum, sorrentinum,Tiburtinum), ai 16 denari al sestiario per i vini di media qualità, agli 8 denari per i vini di basso pregio. Il consumo medio di vino in un anno è stato calcolato in 140 - 180 litri a persona, questo grande consumo si pensa che sia dovuto anche al grande apporto calorifero che dava alla dieta romana costituita in gran parte da cereali e vegetali. |